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Introduzione

Nel corso degli ultimi cinquant’anni i corsi d’acqua sono stati valutati con metodi di indagine che spesso erano lo specchio del panorama culturale ed economico di quel contesto sociale.

La legislazione sulla tutela delle acque dall’inquinamento è stata praticamente inesistente per decenni parallelamente al compiersi di grossi disastri ambientali le cui profonde ferite non sono ancora rimarginate.

Si è giunti, quindi, all’emanazione della legge Merli che, con i ben noti limiti in essa contenuti, ha indebolito la lotta all’inquinamento, ma soprattutto ha preso in considerazione uno solo dei comparti ambientali: l’acqua. In realtà un piano di risanamento delle acque non può prescindere dall’esigenza di conservare o ripristinare la qualità ecosistemica degli ambienti fluviali.

Che senso ha investire miliardi nella depurazione degli scarichi e nel contempo distruggere la naturalità degli ecosistemi fluviali attraverso una serie interminabile di interventi di prelievo idrico e di artificializzazione? D’altra parte, se il quadro normativo fosse stato passivamente applicato i tecnici avrebbero potuto prelevare una bottiglia di acqua da un fiume disastrato, analizzarla in laboratorio e, magari, certificarne contro ogni evidenza l’ottimo stato di salute.

Da qui l’evidenza che i metodi chimici e batteriologici, che restano un pilastro del controllo dell’inquinamento dei corsi d’acqua, devono essere affiancati da altri metodi in grado di rilevare quelle tipologie di deterioramento degli ambienti fluviali che, anche se non compromettono la qualità dell’acqua, esercitano un impatto spesso ancor più devastante.

Un primo momento di rottura con questo tipo di approccio si è avuto in seguito all’utilizzo in Italia dell’Indice Biotico Esteso la cui applicazione, assimilabile ad un’intervista agli organismi acquatici, che sono invitati ad esprimere un giudizio sulla qualità delle condizioni ambientali, non è più limitata alla componente acqua, ma comprende anche la presenza di microhabitat, il perifiton, il regime idraulico, la diversità ambientale, la vegetazione acquatica. E così gli effetti della banalizzazione di un ambiente fluviale vengono rilevati da un metodo di indagine e registrati dagli organi di controllo.

Si presta maggiore attenzione alle relazioni funzionali tra fiume e territorio e si riconosce il ruolo centrale che le fasce di vegetazione riparia hanno in queste relazioni: finalmente dall’esame della bottiglia d’acqua si passa a considerare l’intero ambito fluviale.

Nel frattempo, lo sviluppo sostenibile diventa obiettivo centrale dell’Unione Europea e in Italia si sviluppa una normativa che parla di deflusso minimo vitale, di rinaturazione dei corsi d’acqua, di conservazione della biodiversità. L’acquisizione di conoscenze sullo stato dell’ambiente ha lo scopo preciso di individuare risposte efficaci e politiche opportune per conseguire concreti risultati di miglioramento ambientale.

L’RCE-2, che nel frattempo ha modificato il proprio nome in Indice della Funzionalità Fluviale (IFF) per meglio chiarire l’obiettivo che si prefigge, rappresenta la risposta adeguata alle nuove esigenze del nostro Paese, poichè si presta egregiamente sia come indice di stato dell’ambiente, sia come strumento di cambiamento. Questo metodo, infatti, non si limita a dare valutazioni sintetiche sulla funzionalità fluviale e preziose informazioni sulle cause del suo deterioramento, ma fornisce anche indicazioni precise per orientare gli interventi di riqualificazione e stimarne preventivamente l’efficacia.

L’applicazione dell’RCE-2 non richiede strumenti sofisticati, ma non per questo deve essere sottovalutato: infatti, l’RCE-2 è tutt’altro che un banale questionario compilabile da chiunque, ma deve essere considerato una guida ad una vera e propria indagine ecologica, nella quale la competenza degli operatori è un requisito irrinunciabile; in definita, la cultura e la conoscenza primeggiano sulla tecnologia.